Quando un piccolo lavoro in casa si trasforma in un momento di giusta riflessione

Quando in casa dobbiamo fare un lavoro, grande o piccolo che sia, quasi sempre siamo noi donne a dover rimare chiuse ad attenderne la conclusione. Solo se si presenta qualche piccolo intoppo viene chiamato/avvisato l’uomo di casa; rappresentazione, questa, di una società retrograda e maschilista, come se noi donne non fossimo in grado di capire quello che sta succedendo. Questo però è un discorso a parte che richiederebbe molto più inchiostro (come si sarebbe detto una volta), ma soprattutto un contesto diverso.

Anche se io sono una persona che ama stare in casa e che vi trascorre serenamente il suo tempo, il dover restare bloccati senza poter uscire, anche solo a fare la spesa, mi ha resa molto ansiosa. La prima sensazione che ho provato è stata quella di una punizione: “Hai avuto una perdita d’acqua in casa, oppure, hai deciso di installare delle zanzariere piuttosto che condizionatori o simili? Bene!!! Questa è la tua punizione, dovrai restare in casa senza poter vedere e sentire nessuno finché non avrai finito”. So che sembra una esagerazione, anche perché, tua è stata la scelta di fare quello specifico lavoro e soprattutto tua è stata la scelta di non lasciare casa (“supervisionando i lavori”), ma ripeto, anche se capisco bene che la mia è solo una reazione psicologica magari dettata da una qualche frustrazione personale, la sensazione resta.

Così non so bene come, forse anche per superare questa impasse psicologica, ho cominciato a pensare a chi uscire non può e non solo per due giorni, ma per periodi molto più lunghi.

Ho sempre pensato che per chi commette un reato il carcere fosse la giusta punizione: privazione della libertà, come conseguenza per aver negato ad altri i propri diritti; con la giusta gradazione di detenzione proporzionata al reato commesso. Devo ammettere però, e spero di spiegare bene questo mio concetto per non provocare in chi legge qualche giusta irritazione, che dopo questa mia “piccola detenzione” le mie opinioni sono cambiate, soprattutto in virtù del fatto che nella nostra costituzione il carcere non ha un valore punitivo ma rieducativo.

Articolo 27 La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra.

Prima di tutto credo sia doveroso fare una giusta distinzione tra le persone che si trovano in carcere, anche perché qualunque sia l’opinione a riguardo della detenzione, tutti concorderanno con me che c’è differenza tra chi è colpevole e chi è innocente ma comunque detenuto in via cautelativa (non sono un avvocato e mi scuso con chi lo fosse se ho commesso qualche errore soprattutto terminologico). Io poi, a queste due categorie di base ne aggiungerei anche una terza che definirei dei “quasi colpevoli“. Sono cioè coloro che nonostante una condanna, magari in via definitiva continuano a proclamarsi innocenti. Questi ultimi vanno poi distinti tra colo che continuano a mettere in discussioni le prove che li hanno portati alla condanna (magari sentendosi al centro di non si sa bene quale complotto, in taluni casi di natura mediatica, che li hanno condotti alla condanna) e chi invece anche ammettendo le prove non riesce a comprendere la natura stessa del reato, perché ritenuto esso stesso ingiusto.

Il motivo per cui faccio tutte queste distinzioni è che per ogni tipologia di detenuto le emozioni che si provano sono diverse e diverse dovrebbero essere le azioni che si intraprendendo nei loro confronti.

Così mentre per chi commette atti gravi come l’omicidio, ancor più se doloso, o per coloro che vengono arrestati per mafia, la  rieducazione dovrà necessariamente comprendere anche una componente psicologica relativa alla comprensione  del reato commesso. Similmente anche per i quasi colpevoli la componente psicologica svolge un ruolo fondamentale. Se prima non si comprende quello che si è fatto sicuramente sarà ancora più complicato accettarne le conseguenze e soprattutto agire per non reiterare il reato.

Diversamente per coloro che sono innocenti, come bisogna agire? In questi casi come si fa a fare accettare ad un innocente una condanna? O comunque una indagine per qualcosa che non si è commesso? In questi casi non si può semplicemente far comprendere; e poi comprendere cosa?

E i casi in cui è difficile distinguere tra colpevoli, quasi colpevoli e innocenti. Cosa fare? Che azioni intraprendere?

La verità è che nessuno ha una soluzione preconfezionata a questo dilemma, ma posso dire che anche se le leggi le fanno i politici, la perdita della libertà per gli innocenti non è la stessa cosa che per “colpevoli o quasi”. Con questo non voglio dire che solo chi è stato in prigione ingiustamente può trovare una soluzione, ma sicuramente in questo, più che in altri casi, la politica non può fare da sola. Per trovare una buona soluzione è necessario affidarsi a chi nei carceri ci lavora tutti i giorni (anche solo a titolo di volontariato), tentando di assolvere ad un compito specifico iscritto nella nostra Costituzione: rieducare.

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